Leggo. Gli
occhi voraci seguono con fatica il segno, sfidati dai continui e irregolari salti. A volte, dopo qualche sobbalzo, aggettivi
si trovano affiancati a sostantivi inaspettati. Mentre inseguo un “matronale” che si aggancia
furtivo a “sguardo”, mi distoglie un profumo delicato e fresco,
che sa di mare e sabbia.
Ancora l'occhio è perso tra i
ricordi di estati passate e la fine del paragrafo, quando mi accorgo di lei.
Lunghe mani sottili con molteplici anelli e smalto lucido. Filiforme,
sbilenca, ma elegante. Si siede di fianco a me, anche se tutti gli
altri posti nello scompartimento sono liberi. Forse è per via di
qualche spiffero, penso, o per guardare il paesaggio che le viene
incontro con l'avanzare del treno.
Mi rituffo alla ricerca della musica
delle frasi calviniane, ma il sopracciglio ribelle, inarcandosi,
trascina verso l'alto il mio sguardo. Abbastanza per sbirciala di
sbieco sopra l'orlo del libro. Lisci capelli neri, tenuti a bada
dagli occhiali da sole. La pelle bianca da ragazzina, i segni della
stanchezza che le aggiungono qualche anno. Anche lei inizia a
leggere.
Ad un tratto, in prossimità di uno
scambio forse male allineato, il treno ha uno scatto. E' questione di
un secondo e la mia gamba destra, prima parallela all'altra, si trova
disordinatamente protesa verso il finestrino. Prossima alla sinistra
di lei, che legge concentrata e compita. Un secondo rapido sobbalzo fa sì
che i nostri malleoli per un attimo si sfiorino. Sto per scusarmi, ma
aspetto il suo sguardo. Resta assorta e rapita da pagine che gira
velocemente.
Rimando allora in posizione, piede
destro allineato al suo sinistro.
Forse non se n'è accorta, o forse non
le dispiace. Cercando una posizione più comoda sul rigido sedile
dell'interregionale mi intraverso abbastanza da giustificare un
contatto tra il polpaccio mio e suo. Un contatto leggero, sia chiaro,
appena accennato. E' più uno spostare l'aria dal parte del mio jeans
così che questa vada a strofinarsi contro le sue spesse calze nere. Non risponde. Né allontanandosi, per
interrompere la goffa invasione, né per agevolare con sfrontatezza
un maggiore ardore.
Aspetto, riprendendo la lettura, mantenendo ferma la condizione di primo contatto.
Leggo di un tal Tomagra, ma l'occhio
ormai ribelle anticipa il rollio del treno per saltare verso di lei,
immobile, che legge. Mi decido, irrigidisco il polpaccio
come fosse un pugno e, assecondando il movimento della carrozza,
busso al suo delicatamente. Per un attimo tutto è sospeso, anche il
resto del treno si silenzia. Poi di botto lei tossisce. Mi alzo
all'istante interrompendo il contatto e con un pretesto mi attardo a
cercare qualcosa nel bagaglio. Sudo spaventato, ho esagerato. Come mi
è venuto? mi chiedo. Ora si alza e se ne va, nella migliore delle
ipotesi. Oppure inizia ad urlare.
Dopo aver aperto e chiuso il borsone
tre volte, oso guardarla di nuovo. Riposa. Occhi chiusi, capo appoggiato
allo schienale, di trequarti sul sedile, ancora più protesa verso di
me. Dorme davvero?
Mi risiedo. Ormai spavaldo recupero
velocemente la posizione perduta e avanzo, è rotula contro
rotula. A metà della lunga galleria mi decido e ad occhi chiusi azzardo. La mia coscia si allinea alla sua e la sfiora. Sento sulla
mia pelle la calda freschezza della sua.
Agitato. Cerco di tornare alla lettura.
Il treno sta finendo la sua corsa, quasi tutti sono scesi. In
quel momento riapre gli occhi, fissi verso la campagna che scorre. Si
volta verso di me e mi guarda, le intense pupille bruciate dal sole
che dentro vi sta. Sta per parlarmi, si protende verso di me.
All'improvviso tutto è buio. L'ultima
lunga galleria, respiro cullato dal dondolio del treno.
Ormai in stazione uno scambio
ferroviario mi fa riaprire gli occhi proprio prima della mia fermata.
Sono solo. Rimetto in borsa “Gli amori difficili” di Calvino e
con un sospiro scendo.
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