sabato 29 novembre 2014

'A Juventus


Avellino-Juventus, 31 ottobre 1982, ottava giornata del girone d'andata.
Una delle prime partite allo stadio che ricordi.

Già arrivarci da Montoro è un'avventura. Pranziamo presto perché inizia alle 2 e mezza. In auto, una Simca 1100 beige, con stuccature artigianali antiruggine sulle fiancate, siamo io e mio padre.

Parcheggiamo lontano dallo stadio per 'evitare il traffico all'uscita' e non pagare i parcheggiatori abusivi. Molto lontano, ad essere precisi. Sotto i cappuccini. Per i pochi che non sono mai stati ad Avellino vuol dire ai piedi del colle sul quale si trova il Partenio. 

Iniziamo la scalata e non siamo i soli, a quei tempi spesso c'era il pienone. Con la Juve, poi, era inevitabile. Quando scolliniamo, parecchi minuti minuti dopo, ci infiliamo nella fila di bancarelle che costeggia lo stadio, riesco a guadagnarmi una bandiera. Di fianco l'alto muro lungo il quale i senza biglietto tentano la scalata. 'Scinni (scendi)', urla il carabiniere in basso. 'Manco pa' capa' (non ci penso proprio), rispondono i più educati. È una pantomima che si ripete decine di volte. 'Ue', Ciro', urla uno di quelli che ce l'ha fatta, a cavalcioni in cima. 'Cia', Pashca'', gli risponde mio padre. Noi però il biglietto lo compriamo, tribuna Terminio verso la Curva Nord. Sarà una scelta fortunata.
La Juve si schiera con Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea, Tardelli, Paolo Rossi, Platini, Boniek. Noi gli rispondiamo con Tacconi in porta, Favero e capitan Di Somma in difesa, a centrocampo Barbadillo e Tagliaferri, in attaco Limido e Vignola. Più venticinquemila sugli spalti.

Che poi quasi tutti, a quei tempi, si tifava per la Juve. 
Quel giorno, però, il patto tacito era chiaro, c'era solo l'Avellino.

Non ricordo tanto della partita, travolto dall'esperienza di spalti urlanti, bandiere sventolanti - compresa la mia, e quel vento gelido che per la prima volta potevo far finta di non sentire, perché non c'era nessuno a ricordarmi 'copriti che poi ti ammali'.

Ad un certo punto la Juve segna, un gol fortunoso di Scirea su una respinta del portiere. Siamo già nel secondo tempo, la tensione nello stadio sale. Neanche in quarto d'ora dopo c'è un calcio d'angolo per l'Avellino. Proprio sotto lo spicchio nel quale siamo seduti. Si capisce immediatamente che è un'occasione unica e non ce ne saranno altre. Tutta la squadra sale nell'area avversaria, compresa la difesa, compreso capitan Di Somma. Un libero d'altri tempi, disordinatamente pelato, spigoloso e cattivo. Di quelli che avrebbe trattato allo stesso modo Platini e un attaccante di terza categoria. Di quelli che Pasquale Bruno avrebbe abbassato lo sguardo.

La palla spiove in aria, poi non ricordo bene, ma è proprio capitan Di Somma a colpirla, di testa o di spalla, o forse era il petto oppure il braccio. Zoff reagisce in ritardo e può solo raccogliere il pallone in fondo alla rete, mentre tutti fanno festa.  Di fatto la partita finisce in quel momento. Il resto è solo melina in campo e paura sugli spalti.

Andiamo via a cinque minuti dalla fine, 'per evitare il traffico'. Perdersi gli ultimi minuti delle partite negli anni diventerà una tradizione che sarò in grado di rovesciare solo dopo aver preso la patente, impossessandomi delle chiavi della macchina.

Siamo già verso la discesa all'auto quando sento lo stadio esplodere di gioia.
'Lupi, lupi, lupi', gridano. Un urlo così forte e profondo che non potrò mai dimenticare.

Con un brivido e un sorriso, ci stringiamo e allunghiamo il passo.

venerdì 28 novembre 2014

Quando eravamo ciclisti


Un'estate di molti anni fa, il '92 forse.
Ci convinciamo d'essere ciclisti.

Con un amico esco in bici tutti i giorni. Ci arrampichiamo sulle colline che circondano Montoro, su per i boschi. Se un giorno uno non può, l'altro ne approfitta per un allenamento supplementare. Perché poi il gioco è staccarsi in salita e attendere allo scollinamento. 'Aspetti da tanto?'. 'Ma, no, figurati. Solo 2 minuti e 27 secondi'.

Due le tecniche che vanno per la maggiore. La prima, classica, consiste nel cercare un tornante ripido, scattare sui pedali e resistere ai muscoli in fiamme sino a quando l'altro non è più in vista. E' importante la frequenza, altissima, e il rollio. La bici diventa un attrezzo ginnico, un cavallo con maniglie, sul quale volteggiare ed esprimere così la potenza che costringe il rivale alla resa.

La seconda tecnica, più rischiosa ma cattiva, finalizzata ad infliggere un'umiliazione definitiva, è l'allungo progressivo. Si aspetta un rettilineo per passare ad un rapporto più duro. Con perfetto bilanciamento, senza variare il ritmo della pedalata, si aumenta progressivamente la velocità. E' importante non voltarsi mai e conservare sulla faccia un sorriso da nuoto sincronizzato che dissimuli la fatica.

Oggi ritrovo le sensazioni di quell'estate.
E' sera, manca poco all'ora di cena. Torno da lavoro, un'altra bici mi precede di qualche metro. Nel parco, dove la ciclabile con una leggera piega a destra copre un dislivello di quasi un metro, aspetto che esausta cali il ritmo e di potenza la supero inesorabilmente. Scampanello, perché noti la progressione. Nulla può, ingobbita sulla graziella anni '70, due borse della spesa attaccate al manubrio, i capelli grigi bagnati dalla foschia e dallo sforzo.

L'aspetto al semaforo sul viale. 'Posso aiutarla, signora?”. “No”, mi risponde fiera e sprezzante.

Riparto. Nel '92 mi piaceva di più.