sabato 26 aprile 2014

Ogni analytics ha le sue spine



Lo dice Google: 1005 sessioni complessive, 262 sono sue, 1 ogni 4.

Ci ho messo un po' a capire che fosse lei, che ci fosse una lei. All'inizio non la riconoscevo, persa tra gli altri. Erano solo flussi di dati, insiemi di città, dispositivi mobili e non, canali di accesso, nomi di pagine. Col tempo, però, ho imparato a riconoscere ricorrenze, ad associare una precisa configurazione di dati, e sue piccole varianti, ad una entità ben precisa. Che così da virtuale è diventata per me reale, conoscibile e conosciuta.

Per tre mesi almeno due visite al giorno, senza mancarne uno.
Preferibilmente a notte fonda da casa, quando l'insonnia la divora, ipotizzo.
Oppure dall'ufficio della multinazionale, quando è in pausa, penso. Nei giorni di festa spesso all'ora di pranzo, prima di mettersi a tavola con la famiglia, immagino. Raramente al mattino, per colpa del bioritmo che carbura lentamente, sono sicuro. Il più delle volte da un cellulare, coreano, prima però ne aveva uno americano.

Se per un po' non pubblico niente, gli accessi si intensificano. Sono come i ping di un sonar alla ricerca di un'eco che testimoni la mia persistenza in vita. Spesso, infatti, sono visite one shot, pagina principale per un attimo e via, per rispondere all'impellente bisogno di me. A volte, invece, le visite diventano più profonde, tre-quattro pagine, alcune ricorrenti, le sue preferite.

È capitato che pubblicassi controvoglia, sforzandomi di scrivere qualcosa, solo perché mi immaginavo il luccichio nei suoi occhi trovando un nuovo post.

Poi un giorno le scrivo, non sul blog, proprio a lei. Nella configurazione di dati c'era anche il suo indirizzo email. Dico ti penso, so che anche tu pensi a me. Ti va di vederci?

La mattina dopo mi svegliano i carabinieri, mi chiedono perché la spio, mi intimano di smetterla.

L'ho spaventata.

mercoledì 23 aprile 2014

O' flash mobbe


Costiera cilentana, agosto, prima mattina.

Il bar è silenzioso. Mario asciuga i bicchieri, Peppe al tavolino legge la Gazzetta. 
Un supersantos contro una serranda. O' pallone vo schiatto.
Da fuori il mare si fa sentire.  Un caffè, ordino. 
In tv, 'like a prayer'.

Life is a mystery
Everyone must stand alone

Chiudo gli occhi mentre aspiro l'aroma del caffé.

I here you call my name
And it feels like...

Home, aggiunge in falsetto una voce maschile.

Apro gli occhi. Mario mette a posto i cucchiaini. Uno sopra l'altro. Risuonano, mi pare a tempo.

When you call my name, it's like a little prayer

I'm down on my knees, I wanna take you there

Peppe continua a leggere, però ondeggia. Le spalle, per prime. Seguono la testa e il collo grasso. 


In the midnight hour I can feel your power

Just like a prayer, you know I'll take you there.

La crema densa del caffè disegna piccoli archi nella ceramica bianca.

I hear your voice, it's like an angel sighing

I have no choice, I hear your voice, feels like 

flying, dice Carmela affacciandosi dalla cucina.


I close my eyes, oh, God I think I'm falling
Out of the sky, I close my eyes, 

Heaven, help me, le risponde Peppe, alzando lo sguardo per un attimo.


Bevo il primo sorso, una robusta che sa di legno, calda e rotonda.


When you call my name, it's like a little prayer
I'm down on my knees, I wanna take you there

Carmela leggera spazza per la sala. Dal tressette in veranda Zi' Tore e gli altri, a furia di carichi sul tavolo, portano il tempo.


In the midnight hour I can feel your power

Just like a prayer, you know, I'll take you there

Like a child you whisper softly to me
You're in control just like a child, now I'm dancing - dice Carmela e si ferma trattenendo il respiro.

It's like a dream, no end and no beginning

You're here with me, it's like a dream, let the choir sing - le risponde Peppe fissandola dritta negli occhi.

Deglutisco. Mi riscaldo col calore della tazzina.

When you call my name, it's like a little prayer


Irrompono i bambini seguendo il supersantos.


I'm down on my knees, I wanna take you there


Corrono intorno ai tavoli.


In the midnight hour I can feel your power


Zi' Tore ha interrotto il tressette e dalla finestra agita le mani.


Just like a prayer, you know, I'll take you there


Mario all'improvviso cambia canale. Parte un annuncio pubblicitario. 

Le gomme Tufano. Tutto si spegne

Carmela raccoglie la spazzatura, Peppe inizia a sfogliare Il Mattino.

'O pallone vò schiatto', dice Mario ai bambini che scappano via.
'Napoletana a coppe' chiude Zi' Tore.

Bevo l'ultimo sorso ad occhi chiusi. 

E' quello più importante, il cui ricordo mi accompagnerà sino al prossimo.

Pago e me ne vado.



p.s.: sarebbe da rileggere con la colonna sonora giusta...

Madonna - Like a prayer




lunedì 21 aprile 2014

Lulù, il barboncino che si credeva un cane da guardia



Il sole caldo illumina una giornata di fine dicembre. Nel cortile tra i palazzi zigzago per parcheggiare. Zigzago tra cani stesi al sole a sonnecchiare. Qualcuno di loro alza appena lo sguardo, non certo Lulù che lì al centro, ad occhi chiusi, sogna gli amici passati e quelli presenti.

La nobiltà non si sviluppa, ce l’hai dalla nascita. E così è stato per Lulù, barboncino cresciuta in appartamento per essere bella. Con l'abitudine della passeggiata domenicale in piazza e la dieta controllata per rendere più lucido il pelo.

Però un giorno divenne di troppo. O lei o il nuovo bimbo in arrivo. Finì così in una masseria in campagna, tra polvere, auto e galline, a dormire all’aria aperta. Quello coi capelli bianchi che l’aveva accompagnata le aveva anche comprato una cuccia per non farle sentire freddo. Una casetta gialla col tetto rosso, dentro una vecchia coperta di lana, davanti le ciotole sempre piene. Lei l’aveva rifiutata. Dormiva davanti al portone o, quando tirava il vento, riparandosi sotto il balcone del pianto rialzato. Si domina adattandosi ai cambiamenti, non aggrappandosi al passato che non è più.

Presto aveva scoperto nuovi amici. Prima di tutto la vecchia col bastone del piano terra, le univa il piacere di prendere il sole in cortile nelle ore calde della giornata. Lei distesa mollemente sul cemento, l’altra sprofondata nella sedia con le ruote. E poi questi donnoni possenti, che parlavano strano, ma portavano sempre da mangiare e da bere, a lei e alla sua amica. E quello con i capelli bianchi che lei accompagnava quando lavorava nell’orto di fronte, divertendosi ad inseguire libellule vere e immaginarie. E i bambini che anche se crescevano si moltiplicavano, alcuni avevano iniziato con la bicicletta con le rotelle, avevano poi finito per guidare le macchine. Aveva inoltre scoperto di esser ghiotta di wurstel, che orgogliosa ostentava portandoli in giro come fossero un sigaro cubano.

Lulù aveva preso sul serio il nuovo mondo. Una sera tornando a casa tardi mi era corsa incontro nel buio ringhiando minacciosamente per difendere i suoi amici. Coi piedi puntati e i muscoli in tensione, occhi di fuoco minacciosi di morte. Sino a quando il lampione, illuminandomi, le permise di riconoscermi. Neanche il tempo per l'eco del ringhio di perdersi nel vento che la ritrovai ai miei piedi, mi mostrava il collo avida di coccole.

E non era sufficiente una piccola carezza. Il rituale doveva seguire un percorso preciso, dalla pancia al collo, sin dietro le orecchie, per il tempo ritenuto da lei sufficiente, prima che potessi essere congedato. E così era tutte le volte.

Da sacerdotessa aveva insegnato quel rituale e tanti altri a tutti i cani che, fissi o di passaggio, erano finiti in quel cortile. E così nelle giornate di sole capitava di zigzagare tra corpi lasciavi che facevano l’amore con i raggi del sole. E di dover procedere attraverso una via crucis di coccole e carezze per raggiungere il portone.

Nel tempo Lulù aveva perso vecchi amici e ne aveva trovati di nuovi. Non c’era più la vecchia signora che amava il sole, di cui lei onorava il ricordo stendendosi a sonnecchiare davanti alla porta serrata da tempo. Non c’era più quello con i capelli bianchi che piantava le patate, e che a lei sembrava di sentire quando correva tra i noccioli e le piante di pomodori. Se ne erano aggiunti però altri. Tutti insieme, vecchi e nuovi, li ritrovava nei sogni . Soprattutto quelli di metà pomeriggio, quando stesa al sole nel baricentro del cortile, catalizzava ricordi e desideri di chi la circondava.


Con il passare degli anni, questi sogni erano diventati sempre più lunghi e reali. Ancora la voglia di coccole era sufficiente a farla rotolare avida a pancia all’aria, ma il desiderio di trascorrere tempo ad occhi chiusi era cresciuto.

Una sera di aprile, è il giorno di Pasqua, un vento del nord porta nuvole cariche di pioggia.  In manovra metto l’auto in garage, attento ai muri stretti e alle cianfrusaglie sparse. Lulù sonnecchia, alza lo sguardo e fissando il fanale della retromarcia non si sposta.

domenica 20 aprile 2014

All"incontrario

Se leggo la nostra storia al contrario
Parla di come abbiamo rimesso insieme i pezzi dei nostri cuori,
E poi siamo stati felici finché un giorno
Non ci siamo completamente dimenticati uno dell'altra.


p.s. Questa è una storia breve, anzi minuscola, di Joseph Gordon-Levitt
p.p.s.: l'ho riportata in modo adunpassodallesserefedele...

domenica 13 aprile 2014

La mezza rovesciata



Lo incontri al supermercato, nella corsia dei detersivi. Al collo appesa una duenne affettuosa. Con la destra, invece, tiene sotto controllo il grande, quattro anni in cerca di autonomia. Porta avanti un carrello pieno a metà. L'occhio è appannato, la mente altrove. Lei lo precede di un metro e con rapidi e secchi gesti della destra ne guida i movimenti, mentre attenta valuta lo scaffale degli ammorbidenti.

A casa con cura prepara la borsa. Prima le ciabatte, poi il ricambio della biancheria, l'accappatoio. “Ricordati il phon, ché altrimenti ti viene il mal di testa”. Infine, il completino. Un bacio alla bimba, la borsa a tracolla, nella destra l'indifferenziata.

Arriva al campo per tempo, quaranta minuti prima. Gli piace vestirsi da solo; nello spogliatoio deserto sentire il rimbombo della borsa quando la lascia cadere. Gli piace avviarsi al campo a passi lenti e misurati. Sentire l'aria fredda nei polmoni. Iniziare il riscaldamento.

Metodico, fa sempre quattro giri di campo, poi inizia i cambi di velocità, con tanti scatti brevi. Durante lo stretching arrivano gli altri che subito, come bambini, si gettano alla rincorsa del pallone.

Finalmente tutti si schierano. Uno scambio di sguardi e la partita ha inizio. Gioca sulla fascia, in quel corridoio nel quale a perdifiato diventi decisivo per la tua squadra, con energici recuperi difensivi e intuizioni offensive che ti fanno vedere spazi che gli altri non vedono.

Al primo scatto tenta uno stop a seguire ma la palla, infida, sfugge via in fallo laterale. Tenta un contrasto con l'avversario grosso, una gomitata involontaria lo stordisce, allarga le gambe, la palla passa in mezzo. In un'azione offensiva taglia alle spalle del difensore, il passaggio è col contagiri, carica il destro e rilascia. Forse un rimbalzo irregolare, o un'esitazione all'ultimo secondo. Manca la palla e nello slancio fa un giro su se stesso, cade a pancia all'aria. Ha male, alcuni ridono, i compagni di squadra si incazzano.

Si segnano gol da una parte e dall'altra. Il ritmo dei respiri diventa sempre più serrato, in bocca il sapore del sangue rappreso e la frustrazione delle aspettative deluse. “Chi segna, vince”, decreta il capitano degli altri. Tutti annuiscono, tirando il fiato. Dal fallo laterale la palla finisce a metà strada tra due, nel conseguente contrasto si impenna, uno della sua squadra salta e di testa la indirizza verso l'attacco. Il pallone percorre una parabola arcuata e lenta e lui è lì, a 4 metri dalla porta avversaria, la mano sul fianco a stringere la milza che duole. Ha il tempo di alzare lo sguardo, fare un passo avanti e, spalle alla porta, provare un calcio di destro torcendosi e sbilanciandosi all'indietro.

Nei suoi ricordi,nei racconti al bar, al lavoro, e dal panettiere il sabato mattina, sarà una mezza rovesciata. La palla velocissima e potente si insacca non prima di aver colpito la traversa ed avere danzato, carica di effetto, sulla linea rimbalzando prima fuori e poi dentro. Il portiere inerme a bocca aperta. Quello grosso con l'occhio appannato e spento, i gomiti che arrancano nell'aria.

Corre sino alla propria porta. Li abbraccia e bacia uno per uno. Si toglie la maglia e la lancia in aria. Tutti sorridono. Pure quello grosso gli stringe la mano. Ancora sudato, nell'aria fredda della sera, chiama a casa. “Sì, torno subito. Giusto, è il giorno dell'umido”.

Senza la doccia, con un piacere interrotto a metà, mette in moto e si allontana.

sabato 5 aprile 2014

Si alza il vento, che qualche volta porta brutte notizie


The wind rises è in realtà una specie di racconto autobiografico.
Sogni, desideri, fatti realmente avvenuti - anche se non proprio in quel modo lì - si intrecciano in modo divertente, poetico e commovente. La stessa logica di storieadunpassodallesserevere, ma eseguita un po' meglio.

Il protagonista è un ragazzo giapponese il cui nome è Jiro. Curiosamente, se lo si pronuncia ad alta voce, questo nome suona in modo molto simile a Ciro. Soprattutto quando urlato da una mamma campana ad un figlio discolo che scappa nei campi dopo qualche marachella.

Cresce nell'immediato dopoguerra, in un paese povero e semplice. Gli piacciono gli aeroplani, che diventeranno il suo lavoro. La vita lo porta lontano dalla famiglia. C'è un terremoto, potente e distruttivo. I viaggi in treno, su e giù per il Paese. Ci sono i militari, con cui deve avere a che fare e per i quali lavora. Anche se a lui, per essere precisi, della guerra non importa poi tanto.

Onnipresente è il vento. Quell'aria che spinge, trascina, domina e strappa. Il vento dei jet militari che sfrecciano a bassa quota, il vento che fa risuonare l'erba nei campi, il vento che porta il lamento del terremoto anche diversi giorni dopo. Il vento che annuncia le cattive notizie, che a volte assumono la forma del rombo scoppiettante di un motore lontano.

E così qualcuno muore, in tutte le storie che si rispettino qualcuno muore.
Però, portato via dal vento nei sogni agitati di chi resta, si congeda rassicurante con una sola raccomandazione, che è poi un imperioso ordine affettuoso: 'vivi!'.

E il dolore diventa un sorriso; flebile, incerto, ma caldo.

Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!


martedì 1 aprile 2014

Storieadunpassodallesserevere chiude causa di forza maggiore


Questa mattina ho ricevuto una lettera di diffida da parte della Mondatori che minaccia azioni legali se non chiudo il blog. Il titolo, dicono, è troppo simile a quello di un progetto che stanno per lanciare, depositato da tempo: Storie ad un centimetro dall'essere vere. Quel che è peggio, alcuni racconti, e in particolare uno dei miei preferiti, 'E' vietato andare in bici nella tormenta', sembra possano essere confusi con quelli di Gyroir Eliasson, autore islandese di loro prossima pubblicazione.
In questo momento non ho la forza, e forse il coraggio, di sopportare una lunga battaglia legale per i miei diritti. Come ultimo post, prima della chiusura, lascio la lettera che ho comunque voluto scrivere in risposta.


Gentilissimi,

quando ho aperto il mio blog, nel febbraio del 2013, non avevo idea del vostro progetto. Ero anche sicuro che utilizzare le parole 'storie ad un passo dall'essere vere' fosse lecito. Diverse volte mi era capitato di usare l'espressione, o formulazioni simili, in pubblico senza subire sanzioni.


Capisco la vostra posizione, ma non vedo come il blog possa essere confuso con il vostro progetto editoriale. Raccoglierete, mi pare di capire, contributi di grandi atleti che raccontano loro storie sfortunate e di come invece avrebbero potuto andare. Nel mio blog di sportivo non c'è nulla. Certo, a volte, dico di quando vado in bicicletta, ma vi assicuro che pedalo pianissimo e non sfido mai nessuno. 


Anche il confronto con il grandissimo Gyroir Eliasson mi pare inappropriato. Confesso di averlo letto, e amato, ma le nostre storie brevi non hanno nulla in comune. Non credo che il lettore medio possa confondersi tra la mia “E' vietato andare in bici nella tormenta” e il suo capolavoro “Bannað að fara sledding í storminum”. A parte che lui parla di slitte e io di bici, ma come può essere possibile non capire la differenza tra una Bologna, seppur innevata, e il ghiacciaio di Drangajökull?


Alla luce delle mie argomentazioni spero vogliate rivedere la vostra posizione. Mi auguro inoltre di ricevere, per il disturbo, una copia omaggio firmata dall'autore dell'ultimo libro di Eliasson.


Cordialmente




Per ulteriori informazioni: il carteggio completo.