mercoledì 1 aprile 2015

Il passaggio



La incontro tutte le sere alla fermata dell'autobus. Mentre io arranco su una bicicletta da uomo in stile secondo dopoguerra, lei saltella da un piede all'altro, inutilmente infagottata contro il freddo invernale.

Ci siamo conosciuti tempo prima ad una cena con amici comuni. La prima volta che a quella fermata l'ho rivista non l'ho salutata per paura di non essere ricordato. Da allora, per l'imbarazzo di scoprire che invece mi ha riconosciuto sin dal primo momento, tiro dritto abbassando lo sguardo.

Quel giorno tornando dal lavoro, ancora più tardi del solito e stanco, inadeguatamente vestito per le intemperie del lungo tragitto ciclesco, sono però felice. Per l'aria fredda che mi entra nei polmoni e mi risveglia dal torpore delle scartoffie. Per la fame crescente che sa di essere soddisfatta a breve. Perché in bici posso zigzagare canticchiando.

E questo buonumore mi dà coraggio. Quello necessario a superare l'imbarazzo di una figura da maleducato ex post. A sovrastimare incosciente le mie capacità fisiche. A lanciarmi in una proposta indecente senza curarmi di un rifiuto.

Mentre ripeto a squarciagola Terra promessa faccio lo slalom tra i tombini, in frigo ci sono gli avanzi dello spezzatino del giorno prima, dalla bocca emetto vapore acqueo che si dissolve nella luce dei lampioni. Sotto uno di questi, alla fermata del 14, sta lei. Esile, delicata e bellissima. Fissa triste un cartello di cambio percorso causa cantiere in corso.

Non ho il tempo di pensarci e neanche lo faccio. Istintivamente tiro il freno e pianto i piedi a terra proprio di fronte a lei. Mi guarda, la guardo. Le indico la canna della bici. Mi guarda e poi guarda il cartello dei lavori. Mi guarda di nuovo e poi guarda l'orologio. Infine mi fissa dritto negli occhi e mi fa cenno di sì.

A fatica troviamo un equilibrio. Lei si siede sulla canna, le gambe ciondolanti, le mani in grembo. Io col busto eretto, gomiti larghi a circumnavigarla, pedalo a gambe divaricate. Entrambi senza parlare, concentrati sulla strada.

Al primo colpo di pedale sbandiamo pericolosamente a sinistra, lei non batte ciglio, io fingo disinvoltura. Basta però prendere il ritmo e tutto fila via come se lo facessimo da una vita. Per evitare le auto, e i pericoli devio per i vicoli del centro. Supero con destrezza i fittoni, evito gli innamorati ubriachi che si baciano all'uscita dei locali, maledico in silenzio i natali dello scooterista contromano.

All'ennesima buca oscilliamo pericolosamente, prima verso il marciapiede di destra, poi decisi verso il centro strada. Reclina la testa e mi mostra il collo pallido per il freddo mentre si sbilancia all'indietro. Faccio forza con l'avambraccio che la circonda per non lasciarla scivolare giù. Avvicino il mio viso al suo, mi puntello sull'asfalto con il piede destro. D'istinto con le braccia mi si àncora al collo. Spalanca gli occhi neri, le pupille bruciate dal fuoco che dentro vi sta. Respiriamo la stessa aria calda. Sfioriamo un cassonetto dell'indifferenziata ma riusciamo infine a ritrovare un nuovo equilibrio.

Proseguiamo. Abbracciati e in silenzio.

Attraversiamo una Strada Maggiore deserta, la ciclabile nel cortile interno dell'ospedale, il buio del parco dell'Arcobaleno. Mi fa cenno di fermarmi all'angolo con lo stradone, di fianco al ponte della ferrovia. Scendo dalla bici, ma dal lato sbagliato, così che finisce per frapporsi tra noi. Allunga ancora una volta le braccia verso di me. Mi sistema il bavero della cappotto e si avvicina. Istintivamente chiudo gli occhi. Mi bacia il naso. Passa il treno che mi culla per un tempo infinito con il suo sferragliare ritmico. Quando torna il silenzio riapro gli occhi, il naso ancora caldo. Lei non c'è.

Il sospiro vaporoso si dissolve nella luce dei lampioni. Risalgo in bici. Calco il cappello di lana sino agli occhi e riparto zigzagando, lo spezzatino mi aspetta in frigo.


Domani è un'altra notte.