mercoledì 29 maggio 2013

Il dj del PD

Cosa pensa il dj quando migliaia di piedi in trance ballano al suo ritmo?


Nascosto dietro una console sempre troppo grande. La silhouette di una testa con grandi cuffie che si muove a tempo. Le mani rapiscono ipnotiche gli sguardi. Passano dischi, uno dopo l'altro. Sconosciuti. La riconoscibilità, nei rari casi in cui si presenta, è ridotta ai minimi termini da remixaggi che violentano tempi e suoni.

Lentamente i piedi escono dalla tranche. I passi sostituiscono i salti. Le birre rapiscono sguardi più dei dischi. Solo resta una coppietta che si bacia al centro della pista. All'ultimo pezzo sconosciuto si allontano anche loro, continuando a baciarsi ad occhi chiusi.

Cosa pensa il dj quando ha di fronte una pista vuota e migliaia di bicchieri che si svuotano parlando d'altro? 

Penserebbe qualcosa se per un attimo, uno soltanto, alzasse lo sguardo. 
E invece imperterrito continua per la sua strada. Sbagliata.

Come certi dirigenti del PD.


venerdì 24 maggio 2013

L'importanza di essere Rocco

E' tardi, è quasi ora di andare a casa.
Lungo il corridoio già buio si affacciano due isole di luce: il mio ufficio, in fondo; un altro ufficio, verso il centro.

Sento passi strascicati che si avvicinano. Impossibile rifugiarsi in bagno senza essere visto, troppo tardi per spegnere la luce e lavorare a lume di schermo, come ho fatto altre volte.
Fa capolino e mi chiede. Mi chiede sempre qualcosa. Ma solo per finta. E' un'esca per attaccare bottone, possibilmente per farmi incavolare. E non è che sia così difficile. Mi ha già chiesto dei sindacati che rubano, dei giovani che non hanno voglia di lavorare, dei tratti tipici dei meridionali e dell'ingiustizia di non poter andare in pensione il giorno dopo. A me che in pensione non ci andrò mai e che morirò povero.

Questa volta mi sorprende, mi chiede se sono felice di chiamarmi Rocco. E quell'attimo di esitazione che trattiene il mio è-tardi-ho-una-cosa-urgente-da-chiudere, gli concede lo spazio, piccolo ma sufficiente, per partire. Sei molto fortunato, mi dice, perché ti chiami Rocco. Come Rocco Siffredi (e nel dirlo mi fa l'occhiolino). Fa colpo sulle ragazze. Grazie ad un nome così, te le fai tutte, doppio occhiolino per esasperare il concetto.

Poi si zittisce e mi guarda fisso. Le labbra socchiuse, già pronto ad assaporare il vaffa indotto della cui energia evidentemente si nutre.

Lo guardo anch'io. Mi raggomitolo sulla sedia per prendere la rincorsa e poi lo sorprendo.

E proprio tutto il contrario, gli dico. Un nome così, comporta grandi responsabilità e grandi rischi. E' tutta colpa delle distorsioni cognitive dovute all'ancoraggio. Perché, se le ragazze associano me a Siffredi, poi si creano false aspettative e finisce csempre con una brutta figura. Se pure inizialmente l'omonimia può favorirmi, il passaparola negativo, in poco tempo, è controproducente.

Preferisco piuttosto che pensino a Rocco Buttiglione. Forse gli inizi saranno un po' più difficili, ma qualsiasi mia parola o azione sembrerà eccezionale e di sussurro in sussurro guadagnerò credito duraturo e spendibile.

Ciò che comporta un guadagno immediato ed effimero può rivelarsi sterile nel lungo periodo. 


Boccheggia, debilitato. Si appoggia all'armadio. Dopo una breve pausa, guardando un punto sopra la mia testa, riprende: sei fortunato, perché ti chiami Rocco. Come Rocco Siffredi. E va via. Facendo l'occhiolino.

Sento i passi strascicati che si allontanano. Una luce si spegne e un vaffa risuona lontano alla fine del corridoio.
Lo aspiro con avidità e sorrido. Mi sento più forte.

mercoledì 22 maggio 2013

Le dolomiti felsinee e la felicità

In bici verso il lavoro il tratto che mi piace di più è quello dopo lo scollinamento di via Ugo Bassi. 





Quando taglio a destra e imbocco via delle Lame. Sono poche centinaia di metri contromano e in preferenziale, ma in leggera discesa. 


Quando stanco per la strada già fatta, e con la consapevolezza delle mamme in suv che mi attendono poco dopo, posso staccare le mani dal manubrio e stendere la schiena. 


Quando per un attimo, con il permesso di taxi e autobus, dimentico da dove vengo e dove vado e solo sento il vento fresco in faccia.


Carpe diem quam minimum credula postero.


domenica 19 maggio 2013

Si impara a negoziare dai più bravi

Il display mostra 3 euro e 34.
“3 euro e 40”, mi dice una voce bassa come un pugno allo stomaco.
“ho solo 3 euro e 30”, rispondo, puntando i piedi.


Ci si arriva prendendo una laterale senza uscita subito dopo un sottopasso ferroviario. Un tunnel buio con graffiti di pesci e balene mi accompagna sino alla brusca svolta a sinistra.

Alzo il bavero, incasso le spalle e passo il cancello arrugginito. Una carta, di quelle gialle da pane, spinta dal vento, taglia il cortile post-industriale. Lontano il rumore di alcune auto e di freni che stridono. 
Tiro la porta a vetri, inspiro ed entro.


Una folla vociante, guantata e inbustante, riempe un capannone troppo piccolo. In mezzo un anello unico di circa 30 metri per 2. Con patate, cipolle, cimette di rapa, cavoli, meloni, scarola, aglio e verdure che neanche ho mai sentito. Chiudono l'anello lunghi scaffali di sottòli, conserve e distillati che sembrano fatti in casa. Alla base, vicino all'ingresso, il bancone con caciotte, salsiccia, soppressa e i pomodorini secchi. Il posto dovrebbe essere uno spaccio di delizie siciliane, ci trovi in realtà qualsiasi cosa nata, cresciuta e trasformata sotto il Garigliano, ma solo a patto che provenga da aziende sconosciute. Lo presidiano in 3 di origine araba. Due ragazze, una al banco colesterolo e l'altra di corvèè alle verdure; il capo, grosso e silenzioso, alla cassa.

L'ho scoperto una volta su suggerimento di un amico. Tutti lo conoscono così, con il passa parola. Non esiste pubblicità ufficiale, non ce n'è bisogno. La particolarità è che tutte le verdure costano uguale. Puoi anche metterle insieme nella stessa busta, altro che alla Coop. Questa piccola libertà inaspettata è probabilmente il motivo del successo.

Scelgo 3 melanzane, un melone e una decina di patate. E vado alla cassa dove li pesano.

Il display mostra 3 euro e 34.
“3 euro e 40”, mi dice una voce bassa come un pugno allo stomaco.
“ho solo 3 euro e 30”, rispondo, puntando i piedi.
“sono 3 euro e 40”, ripete e socchiude gli occhi, lasciando aperta giusto una lama.
Lo fisso e senza guardare inizio a cercare nella tasca degli spiccioli. Fingo di contare le monetine una ad una, prendo tempo.
Mi fissa, e con la destra schiaccia un limone.
La folla vociante che si accalca alle mie spalle rumoreggia ancor di più.
Allungo la mano e gli porgo i 30 centesimi.
Ci guardiamo. La ragazza dal bancone gli dice qualcosa, la ignora. La mia mano è tesa verso di lui, si tende ancor di più. Distoglie lo sguardo solo un attimo per zittire, muto, un sessantenne vaffanculante in fondo.
Perde in quel momento e lo sa. Lo sa già quando riprende a fissarmi, ma con una luce diversa.

“Ci rivedremo”, dicono le sue sopracciglia inarcate. “E' una promessa”, risuona nel mio “Arrivederci e grazie”.

Esco all'aria aperta. Accarezzo felice la testa di un bambino che mi passa davanti.
“Cazzo vuoi?”, mi urla la madre.

mercoledì 15 maggio 2013

Coppi si divertiva di più


Dal lavoro a casa mia sono 7 chilometri.

Con i primi caldi inizio a sudare e la fatica raddoppia. Come al solito rischio la morte un paio di volte. Un tassista sfiorandomi contromano mi urla contro "sveglia!", un furgone bianco sfida le leggi che affermano l'impenetrabilità dei corpi, soprattutto il mio.

Arrivo infine all'ultimo tratto. E' una ciclabile, ma si scivola sulle foglie secche. Ancora solo un breve stacco in salita e sono a casa.

La vista è annebbiata per lo sforzo. A fatica metto a fuoco, ma, strizzando gli occhi, vedo con chiarezza cosa c'è alla fine del mio cammino: il bidone dell'indifferenziata.


E' un po' metafora della nostra vita in tempo di crisi. Ci impegniamo, rischiamo e fatichiamo, magari alla fine vinciamo pure. Ma vinciamo monnezza, della specie peggiore.