Tutto inizia al mattino della vigilia,
prima ancora della sveglia. Ogni anno è così, lo sai per
esperienza, ma non serve a niente anche se ti sei barricato in
camera. Non ti proteggeranno convenzioni internazionali e non sono
previsti ispettori, né d'altra parte servirebbero. Niente è nascosto, tutto è palese e previsto. E'
il temuto capitone. Si insinua sotto la porta, ti raggiunge nella
fase più delicata del sonno. L'ultima, la più preziosa. Quella
nella quale recuperi, di anno in anno sempre meno, i 700 chilometri
fatti il giorno prima e arrivare a notte inoltrata. Ti coglie tra
veglia e sonno, istilla incubi striscianti e maleodoranti.
Non servirà spalancare il balcone nel
freddo dicembrino. Non servirà la doccia prolungata. Non servirà il
caffè amaro per eliminare dalla bocca il sapore dolciastro dei
tranci che sfrigolano. Anzi, peggio. I biscotti, porosi, ne sono
intrisi. La ceramica delle tazzine è unta dal grasso che nell'aria
si diffonde. Perfino l'acqua, se portata all'ufficio competente,
comporterebbe l'arresto immediato della genitrice per indotto
avvelenamento da colesterolo.
E allora vai al bar. Sperando che la
fuga ti porti a luoghi incontaminati. Lì incontri gli amici. Altri
reduci come te. Con occhiaie da sonno disturbato. Capelli unti.
Sguardo colpevole di chi sa di portarsi dietro l'aereo stigma. Si
cerca di sdrammatizzare parlandone. Oggi insalata di rinforzo, con extra cavoli
– dico a uno, annusandone l'afrore. Sì, a noi il capitone non
piace, mi risponde. Da noi soprattutto baccalà, autodenuncia il
barista. Ci scambiamo auguri, strette di mano, odori di cui siamo
profondamente intrisi.
Le auto partono sgommando verso
direzioni opposte, ognuno si avvia al proprio destino ipercalorico.
A me il capitone neanche piace.
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